Sono le 21.30. La speranza è quella di andare a letto  presto, visto che pare l'ospedale sia tranquillo. Ho già salutato la clinical  officer e con la solita battuta umoristica le ho raccomandato di non chiamarmi  mai di notte e di non azzardarsi a svegliarmi. Stiamo ancora ridendo quando  sentiamo un vociare concitato nella veranda. Ci sono moltissimi uomini e donne  e si ode il rumore della nostra barella che sta correndo velocemente. Dico tra  me e me: "addio ai sogni d'oro!".
     Ho però ancora  speranza: forse è solo una malaria o magari un paziente psichiatrico  accompagnato da molti membri della famiglia. Vedo entrare il lettino in  corridoio e mi avvicino con circospezione. Vedo un fagotto di vestiti  completamente insanguinati e mi rendo conto che si tratta di un caso di  violenza. Mi metto i guanti e provo a rimuovere una camicia che era stata  avvolta attorno alla testa del paziente come se fosse una sciarpa, forse per  arrestare l'emorragia. Scopro due occhioni grandissimi che mi scrutano  spaventati: mi rendo conto in una frazione di secondo di essere di fronte ad un  bambino. Non si capisce se è maschio o femmina. Ha i capelli cortissimi  ricoperti da uno strato di sangue coagulato. Continuo a rimuovere gli stracci  che avvolgono quel corpicino e gradualmente comprendo che si tratta di una cosa  terribile, di una violenza davvero inaudita, di una crudeltà quasi bestiale: ci  sono ferite da "machete" ovunque... quella sul capo ha chiaramente raggiunto  l'osso e si scorge la teca cranica screpolata. Poi il torace, le braccia, le  mani: ci sono due dita penzolanti e quasi completamente amputate. Ma quello che  più impressiona sono due gravissime lesioni sul collo: una a destra ed una a  sinistra. Sono così profonde da aver praticamente lasciato i grandi vasi  esposti, dando l'impressione che ormai il cranio sia attaccato al corpo solo  attraverso la colonna vertebrale completamente "spelata". Immagino la brutalità  con cui quel bambino è stato colpito prima da un lato e poi, di ritorno,  dall'altro. Ho voglia di urlare e di scappare: mi metto a imprecare contro chi  ha potuto commettere un atto del genere e dico che quella persona va arrestata  immediatamente perchè un atto così crudele non è degno di un essere umano. In  realtà il mio urlo è dettato solo dalla paura e dallo scoraggiamento: non so  cosa fare, né tanto meno dove iniziare. Vorrei sparire e fare finta che non  fosse successo nulla. Mentre mi aggiro confuso, una donna che era rimasta  silenziosa in un angolo del corridoio, mi si avvicina: porta un bimbo sulle  spalle, e piangendo mi confessa che era stato suo marito, ma che aveva agito in  preda ad un raptus di follia. Era infatti da anni seguito per un disturbo di  tipo psichiatrico. Questa scena mi calma e mi commuove fino alle lacrime;  ritorno in me stesso: non ho il diritto di giudicare. Il mio compito è solo  quello di salvare una vita, se ne sono capace. Laviamo il corpo imbrattato e ci  rendiamo conto che si tratta di una bambina. Chiamo immediatamente per il  gruppo sanguigno ed iniziamo una trasfusione urgentemente. La bimba infatti è  molto anemica e sta diventando confusa. Chiamo tutti ad aiutarmi perchè da solo  mi perdo d'animo. Cominciamo dalle suture più semplici, per poi dedicarci alla  ricostruzione dei tendini e alla ingessatura delle mani: chissà se quelle  povere dita penzolanti potranno riprendersi! Noi ci proviamo e poi speriamo che  Dio faccia il resto.
    Il vero dramma lo viviamo quando ci avviciniamo alla  testa. 
    Deve essere caduta nel fango perchè nelle ferite non ci  sono solo coaguli, ma anche tonnellate di terriccio. Iniziamo a lavare e poi a chiudere  la cute del cranio. La frattura non sembra interessare l'osso a tutto spessore,  ed abbiamo la speranza che non ci sia una emorragia cerebrale, visto che la  paziente è totalmente cosciente e le sue pupille reagiscono normalmente. Infine  il lavoro di ricostruzione del collo: i vasi sanguigni sezionati, i muscoli, le  fasce, il sottocute, la pelle. Non so neppure cosa ho fatto. E' come se una  mano dall'alto guidasse le mie mosse che erano quasi casuali, come di colui che  in preda al panico si aggira qua e là e fa dei tentativi senza un piano  preordinato. Eppure pian piano quel capo che sembrava essere stato "spelato  via" dal resto del corpo ritorna alla sua posizione normale. Ora che la cute è  di nuovo al proprio posto, la bimba sembra più bella e più alta. Abbiamo però  tanta paura di una frattura della colonna e temiamo che ogni movimento possa  essere fatale. Con grande circospezione la medichiamo e la mettiamo a letto con  un "collare" di protezione totalmente improvvisato. Andiamo a dormire dopo le  due di notte, ma gli occhi non si vogliono chiudere: davanti al mio sguardo  continuano a passare immagini raccapriccianti di violenza. Come in un "flash  back", mi ritorna in mente la visita al mausoleo di Kigali, in Rwanda. Quanti  bambini sono stati massacrati con il "machete", ma non ce l'hanno fatta ed ora  sono ridotti ad un cranio sfondato e senza nome nella vetrina di un museo il  cui ritornello è: "genocidio: mai più".
    Anche questa piccolina è una vittima di una piaga  immensa: quella della violenza ingiustificata sui minori.
    Il mattino seguente facciamo i raggi: sono sollevato  perchè non ci sono segni di frattura  alla colonna cervicale, né fratture craniche. Che bello! Ce l'abbiamo  fatta! La bimba si riprenderà! Anche se dovesse avere alcune dita non  completamente funzionanti, almeno sarà viva.
    La bambina continua a chiede4rmi: "ce la farò? Ditemi  che non sto morendo!" Ora potevo con tranquillità dirle che certamente  potrà diventare grande e riprendere a sognare per un futuro migliore.
     Le chiedo allora: "Come  ti chiami?"
     Lei mi dice che si  chiama Kawira, che in Kimeru significa "grande lavoratrice". 
    Poi riprende subito a dirmi: "Non è il caso che  facciate arrestare quell'uomo. E' matto e non ne può nulla. Quando guarisco,  semplicemente io vado a riprendermi tutta la mia roba e poi torno da mia mamma".
    "Ma cosa ci facevi in quella casa?" insisto. "Lavoravo come  persona di servizio. Mi prendevo cura del loro figlio piccolo".
     "Ma come mai non vai a scuola alla tua età? Ho  letto che hai solo 13 anni".
    "La mia famiglia è molto povera ed ho  dovuto andare a lavorare per poter procurare il cibo ai miei fratellini". 
    "Ma se ora torni a casa, andrai a  studiare visto che è praticamente gratis?". 
    "Non  credo proprio perchè mia mamma e mio papà hanno bisogno dei soldi che procuro  facendo la bambinaia a pagamento".
    Questa conversazione apre per me un nuovo mondo, a volte  sconosciuto quando si passano le giornate chiusi in ospedale: quanta povertà!  Solo che i poveri normalmente sono anche umiliati dalla loro condizione e  tendono a non farsi vedere. E che maturità in Kawira; sembra una donna adulta e  responsabile. Alla sua età ha già capito che non è il caso di infierire  legalmente contro un debole mentale, e ha già fatto la scelta di sacrificarsi  lei stessa per il bene dei fratellini più piccoli.
    La guardo e nuovamente mi colpiscono i suoi occhioni neri  che risaltano ancora di più a motivo delle garze bianche delle varie  medicazioni.
    Ringrazio Dio per avermi fatto incontrare questa  piccola-grande creatura, che è portatrice di un germe di speranza che mi ha  riempito l'anima.
    Kawira è un successo che il Signore ha voluto donarmi,  quasi a dirmi: "Non ti scoraggiare mai, anche quando incontrerai burrasche e  tempeste, anche quando tutti ti deluderanno e ti sembrerà di essere inghiottito  dal vortice delle sconfitte. Riprendi sempre il largo".