martedì 27 febbraio 2024

E SE FOSSE GESU'?

E SE FOSSE GESU'?

Erastus è stato trasportato nel nostro ospedale dalla polizia.

Ha una piccola ferita lacero-contusa sulla gamba destra.

Il problema è che ci sono frammenti ossei che spuntano dal taglio: si tratta quindi di una frattura esposta.

Il poliziotto è veloce a dire che si tratta di un povero che non ha nessuno e che in genere vive di elemosina al di fuori delle chiese. Per le mie orecchie, ormai avvezze a questi discorsi, il messaggio subliminale è chiarissimo: "non aspettarti alcun contributo economico da nessuno".

"Che cosa è successo?" chiedo io, glissando l'argomento che mi era stato appena proposto.

"Non conosciamo bene la dinamica, ma pare che gli sia caduto un pietrone sulla gamba".

La mia riflessione è molto lineare: se lo mando altrove, nessuno penserà di operarlo perchè non ha soldi; se non facciamo l'intervento subito, l'osteomielite distruggerà certamente l'osso esposto ed il risultato finale potrebbe essere una amputazione o anche una setticemia.

"Ricoveriamolo subito; programmiamo una lastra e l'intervento di fissazione interna".

Il poliziotto vuole essere sicuro di quello che ha sentito: "sappi che nessuno verrà a pagare, e che noi come istituzione non possiamo venirti incontro finanziariamente".

 "E se questo poveraccio fosse Gesù in persona, lo manderesti via senza aiutarlo?" chiedo all'ufficiale che evidentemente apprezza la nostra decisione, rispondendomi con un largo sorriso.

Mentre scrivo queste due righe, Erastus è già operato: gli abbiamo messo un chiodo di Sign nella tibia, ed abbiamo fondata speranza che ritornerà a camminare come prima.

A causa di una chiamata in maternità alle 3 di notte, oggi non ho pregato molto in cappella; ma sono in pace, perché Gesù lo abbiamo incontrato ugualmente, e non gli abbiamo chiuso il nostro cuore.

lunedì 26 febbraio 2024

NAOMI


Grazie di cuore all'infermiera Naomi, che oggi lascia Matiri per tornare a Londra dove lavora.

E' stata con noi per quasi un mese ed è stata una bellissima presenza nel reparto uomini dell'ospedale.

Naomi è mia volontaria per la seconda volta, e per la prima volta ha vissuto l'esperienza di Matiri.

Per me è stato bello rivederla: questa volta siamo stati insieme di più e ci siamo conosciuti meglio.

Naomi è una persona silenziosa ed estremamente laboriosa: una bella figura di volontaria.

Speriamo di rivederci presto, a Matiri o a Londra. 

mercoledì 21 febbraio 2024

LA FILOSOFIA SWAHILI


Mi ero già soffermato in passato sulla bellezza della lingua Kiswahili e sui profondi significati culturali e filosofici di tante sue espressioni.

Oggi sono stato colpito da un altro modo di dire, già sentito in passato milioni di volte, ma particolarmente dolce alle mie orecchie proprio nella giornata odierna.

Lo sapete tutti che la maggior parte del mio tempo è assorbita dalla maternità e da tutte le sue problematiche. Mi occupo quindi molto di vita nascente: di bambini che vengono alla luce senza problemi, ma anche di altri che nascono pretermine e con un sacco di difficoltà a sopravvivere. Non mancano nella mia esperienza quotidiana i nati morti o quelli che non ce la fanno e soccombono subito dopo la nascita, senza parlare poi degli aborti naturali e provocati. Difficilissimo per me è poi occuparmi di infertilità, quando una coppia non riesce ad avere un bambino dopo anni di inutili tentativi.

Oggi per la prima volta mi sono soffermato con stupore sul modo in cui le donne in Kiswahili dicono che hanno avuto un bimbo.

In Italiano di solito le donne dicono di "aver partorito", o di "aver dato alla luce un figlio"; in Inglese invece dicono: "I have delivered a child".

In entrambi i casi si tratta di espressioni attive, che fanno uso di un verbo transitivo, un verbo cioè che indica un'azione positiva in cui il soggetto è la donna stessa.

E' la donna che dà alla luce, che partorisce, che riesce ad avere il bambino.

Il Kiswahili invece ribalta la prospettiva ed usa una dolcissima espressione passiva: "nimepewa mtoto", che potrebbe essere tradotto letteralmente: sono stata donata di un figlio... mi è stato dato un figlio.

Secondo me questo è bellissimo ed esprime un altro punto molto forte nella cultura swahili: il figlio non lo fai tu; lo puoi desiderare; puoi fare dei piani per concepirlo, ma poi il figlio ti è sempre donato da Dio.

"Mi è stato dato un figlio" esprime la chiara coscienza swahili che la vita è dono di Dio di cui sempre bisogna ringraziarlo. Noi non siamo gli artefici ma i beneficiari della vita.

Ogni volta che oggi ho ascoltato le mamme che mi ripetevano con gli occhi lucidi che un figlio era stato loro donato, ho anche pensato a tutte quelle povere donne che tribolano per tanti anni ed un bambino non riescono proprio ad averlo. Il figlio è un dono che non tutti riescono ad ottenere!

Mi sono ricordato oggi, come in un "flashback", di una sera in Italia a novembre scorso; ero in un bar con degli amici ed ho sentito senza volerlo il discorso di una coppietta seduta al bancone vicino a noi.

Lui ha detto ridendo alla sua ragazza: "vuoi che stanotte facciamo un figlio?"

A parte tutte le altre considerazioni che si potrebbero fare su questi discorsi in un bar, oggi ho pensato che una donna swahili avrebbe risposto a quel giovane: "stanotte possiamo fare dei piani e possiamo anche sperare di concepire un figlio... ma il figlio lo avremo solo se ci sarà donato da Dio".

martedì 20 febbraio 2024

STARE CALMI


Antoine è un giovane collega congolese; oggi sembra fuori di se', e corre disperato nell'aula in cui abbiamo appena terminato la lezione per gli infermieri: "e' arrivata una donna anemicissima. Ha 3 grammi di emoglobina. E' collassata e la pressione e' imprendibile."

"Hai fatto un'eco?", gli chiedo immediatamente.

Antoine si aspetta la domanda:"Certo! Sono piu' o meno sicuro che si tratta di una gravidanza extrauterina".

"OK, ora facciamo le prove crociate; iniziamo la trasfusione; l'anestesista vede la malata, e poi entriamo in sala".

"Ma le condizioni sono instabili; dobbiamo prima stabilizzarla con la trasfusione. Non possiamo operare adesso", interviene il nostro medical officer.

Antoine si fa piu' ansioso: "l'eco dimostra che lei ha gia' piu' di un litro di sangue raccolto in pancia. Piu' aspettiamo e piu' continua a sanguinare! Rischiamo di perderla!"

E' l'anestesista a risolvere il dilemma: "dobbiamo operare subito; altrimenti la mamma muore! Le sue condizioni emodinamiche sono un problema mio, e non vostro!".

Onestamente io ne sono felice, e silenziosamente ringrazio in cuor mio il vecchio anestesista, perche' attendere sarebbe stato un errore grave.

"Bisogna metterle del sangue subito", riprende Antoine.

Io rispondo che c'e' un tempo tecnico necessario per il gruppo e le prove crociate, ed in questo campo la fretta e' una cattiva consigliera: "La donna adesso sta ricevendo liquidi, e puo' aspettare 5 minuti per lo screening del sangue, non ti pare?".

"Allora le faccio prendere un'altra vena e prescrivo di mettere un altro flacone di soluzione Ringer.

"Guarda, Antoine, che il secondo  accesso gia' ce l'ha, e, se vuoi, possiamo iniziare una soluzione osmotica anche da quella parte. "Ci penso io", dice giovane collega sempre piu' ansioso e agitato. Quando poi se ne ritorna con la sua Ringer, la nostra infermiera ha gia' messo su la sacca di sangue.

"Allora prendiamo la barella, ed entriamo subito".

A questo punto, come collega anziano, mi sento in dovere di assumere un ruolo di coordinamento in una situazione che rischia di andare fuori controllo, a causa delle emozioni che crescono in modo esponenziale: Dico a Marcella ed a Mwende di pensare al trasporto della paziente e poi abbraccio paternamente Antoine:

"Ma stai calmo, mon ami!"

"Eh, come si fa a stare calmo quando la donna sta morendo?"

"Lo so che può succedere, ma ti assicuro che, se siamo calmi, il nostro autocontrollo ci permettera' di gestire la situazione molto meglio. L'ansia del chirurgo e' ansiogena e contagiosa: se tu sei spaventato, tutto lo staff perde la testa.

Antoine, la malata non e' in coma: ci sta guardando… Lei ha il diritto di vederci calmi e pienamente 'in controllo'… altrimenti si angoscia!

 Poi le nostre infermiere: se ci vedono sorridenti e orientati, ci verranno dietro… ma se ci sentono dare ordini sconclusionati, perche' anche noi abbiamo perso la testa, diventano nervosissime, e non rendono certo al 100%.

Loro hanno diritto  ed hanno bisogno della tua calma. Anche se stai crepando di paura, tu devi essere un distributore di ottimismo. Se l'operatore si abbatte, gli altri si sentono alla deriva" .

Ci guardiamo con uno sguardo complice. Credo che Antoine abbia capito, perche' si rilassa e mi sorride.

Intanto veniamo chiamati in sala in quanto e' tutto pronto. Gia' la malata sta ricevendo la seconda sacca di sangue. L'intervento e' piu' facile del previsto, e finiamo in meno di un'ora. In sala siamo calmi e raccolti, e questo si traduce in ottima collaborazione con le infermiere. Non volano parolacce e tutto procede per il meglio. E' proprio vero che, con nervi saldi e mente lucida, si puo' fare di piu' e meglio."

 

lunedì 19 febbraio 2024

ENDOPROTESI D'ANCA


Abbiamo iniziato con questi interventi attorno al 2014, al fine di rispondere al problema delle fratture collo femore.

Da sempre però sono stati interventi molto costosi.

All'inizio l'impianto costava al paziente circa 350 Euro, cifra spesso inarrivabile per molti.

Poi sono arrivate nuove protesi indiane ed il prezzo è gradualmente sceso: dapprima 150 Euro nel 2019, e poi 80 dal 2021. Il paziente doveva comunque pagarle!

Anche oggi compro le endoprotesi in India e le pago 70 Euro l'una, ma la novità del 2024 è che ho anche trovato dei benefattori disposti a pagare completamente questo infisso ortopedico: quindi al paziente non facciamo pagare più nulla.

Tra oggi e domani faremo 3 endoprotesi d'anca: per il passato era sempre un tira-molla, in quanto spesso i parenti non potevano pagare l'infisso.

Ora questo problema non esiste più.

sabato 17 febbraio 2024

IL MINIMO COMUN DENOMINATORE

Mi dice un volontario con cui ho una lunga storia di amicizia e di confidenza:

"Oggi mi sembra che le motivazioni che portano una persona a scegliere di fare del volontariato siano così disparate che sia praticamente impossibile descriverle tutte. C'è chi parte da una motivazione di fede e chi invece è completamente agnostico e lo fa per solidarietà umana. Ci sono persone che si dedicano al volontariato per portare il loro contributo a società più svantaggiate, ed altri che intendono rispondere ad emergenze umanitarie. Ci sono anche persone che lo fanno per se stessi: qualcuno per ritrovare se stesso e la parte migliore di sè in un momento di crisi; altri sperano che un'esperienza totalizzante di servizio li possa aiutare a risolvere dei problemi esistenziali o dei conflitti che si portano dentro...altri ancora forse fanno del volontariato ma in realtà pensano di più a fare turismo".

Ho pensato tanto a quanto questo mio amico mi ha detto e sono pienamente d'accordo con lui, ma allo stesso tempo mi sembra che una cosa le si debba dire, almeno per il volontariato a Matiri:

"Hai completamente ragione, ma credo che, parlando di volontariato a Matiri, dovremmo aggiungere anche un'altra motivazione, che io metterei un po' come "conditio sine qua non" per una bella esperienza di servizio sia per il volontario che per noi: parlo della voglia di aiutarci e di collaborare positivamente con noi che qui lavoriamo tutto l'anno. Matiri è ormai un ospedale complesso che va avanti anche senza volontari: i volontari sono una risorsa nella misura in cui si sforzano di accettare i nostri ritmi ed i nostri equilibri interni, ed umilmente desiderano inserirsi nel nostro stile di lavoro. Una persona che si comporta così diventa un grande aiuto per noi, può facilmente colmare molte nostre lacune, può anche migliorare il nostro servizio con la sua presenza, e soprattutto ci fa star bene quando lavoriamo insieme. Invece, chi ha un atteggiamento del tipo "avant moi le deluge" e quasi pensa che prima del suo arrivo qui non funzionasse nulla, ha certamente sbagliato registro e non ci aiuta molto; un volontario che pensa di venire a Matiri ed imporre il suo punto di vista, il suo modo di organizzare il lavoro, le sue metodiche cliniche senza accettare il buono che già c'è in questo ospedale, inevitabilmente porterà degli scricchiolii nella nostra routine di tutti i giorni, causerà del malcontento nel personale, ed alla fine non farà una bella esperienza lui stesso. Io credo che il primo dovere del volontario, al di là delle sue motivazioni personali, sia quello di comprendere che egli è atterrato in una struttura funzionante, che ha i suoi ritmi e le sue abitudini: prima di imporre le prorie idee, egli deve osservare a lungo, farsi accettare e farsi amare da me e dal personale. Quando si sarà instaurato un tale rapporto di stima e di amicizia, allora ogni proposta fattaci umilmente dai volontari sarà presa in seria considerazione e porterà dei cambiamenti sostenibili nel tempo. Le novità imposte invece sono come un venticello che passa, e tutti poi le abbandoneranno non appena il volontario ritorna in patria. Se per esempio il volontario dal primo giorno vuole che il carrello delle medicazioni sia organizzato diversamente, o che la terapia venga data in orari differenti, o che si prescrivano test e medicine non disponibili a Matiri, egli ci creerà solo tensione e non otterrà quel miglioramento degli standard di servizio che magari aveva auspicato, perchè tutto finirà in una bolla di sapone, in quanto il personale non avrà interiorizzato e fatto proprie le sue richieste.

In conclusione penso che ci debba essere un minimo comun denominatore che accomuni tutti i volontari, al di là delle loro ideologie, fedi o motivazioni: e penso che tale denominatore comune sia la voglia di aiutarci, di lavorare insieme senza tensioni, il desiderio di inserirsi nella vita dell'ospedale senza stravolgerla, ma facendola crescere pian piano con proposte umili e rispettose.

Infatti è importante star bene insieme, vivere come una famiglia che insieme cerca il bene dei poveri e dei sofferenti senza imposizioni e senza malumori.

Da ultimo, penso che il volontariato sia anche un grosso dono che noi facciamo a chi ci viene a trovare: è la possibilità di donarsi, di sacrificarsi con grande dedizione alle persone ammalate ed in difficoltà. Sta al volontario cogliere questo dono al massimo, con un periodo di lavoro assiduo e generoso"

venerdì 16 febbraio 2024

RIFLESSIONE QUARESIMALE


Spesso nella vita ci troviamo a discutere su problemi piu' grandi di noi. Puo'essere l'effetto serra, la politica o a volte anche le posizioni della nostra fede di fronte a grandi problemi di attualita'. Quando ci lanciamo in tali argomenti pare sempre che noi abbiamo le soluzioni in tasca per tutto.

Non e' infrequente che ci si "imbarchi" in tali labirinti e sabbie mobili.

Sempre piu' pero' mi rendo conto che io non so dare risposte sui "massimi sistemi"... non ne ho la formazione e non sono d'altra parte nella posizione di cambiare alcunche'.

Perche' quindi iniziare disquisizioni che non ci porteranno a nessuna deliberazione pratica?

Per esempio di fronte ai grandi problemi della fede io cerco normalmente di dare una risposta esistenziale.

Non lo so che cosa la Chiesa dovrebbe fare, e non tocca a me stabilirlo. Quello che so e' che la mia coerenza di vita sara' molto importante e potrebbe costituire l'unica reale risposta alle domande di molti.

Per questo ripeto sempre che, dal mio punto di vista, il primo apostolato a cui sono chiamato e' quello di voler bene: voler bene ai malati che sono chiamato a servire senza risparmiarmi; voler bene ai volontari ed allo staff che spesso non la pensano come me e con i quali la vita potrebbe anche portare a inevitabili tensioni; voler bene a quella gente che in passato potrebbe avermi fatto del male, ad occhi aperti o inavvertitamente.

Altra importante testimonianza che puo' rispondere a varie domande, e' quella del perdono vicendevole. Come Cristiani siamo invitati sempre a "voltare pagina: e' inevitabile avere delle "differenze di vedute" o anche dei veri e propri scontri. Ma l'importante e' credere che tutti possono cambiare e ravvedersi: come posso migliorare io, devo dar credito anche al prossimo di aver le potenzialita' per una autentica conversione.

Perdonare e dimenticare? Certo questo e' quanto ci chiede il Signore Gesu'... ma onestamente ne siamo davvero capaci? E' possibile non ricordare le offese ricevute?

Io non reputo di essere arrivato a questa vetta di ascetismo: le offese purtroppo me le ricordo fin troppo bene! Magari fossi capace di scordarmele e di cancellare tutto come si fa con un computer semplicemente premendo un tasto.

Mentre cerco di continuare il mio lavorio interiore, per adesso mi accontento di ricordare si', ma di non farmi bloccare dalla memoria dei torti veri o presunti che penso di aver ricevuto: e' dunque parte della mia ascesi personale il cercare di parlare e di collaborare con tutti, anche con chi e' stato mio avversario in qualche modo, o mi ha fatto piangere... forse anche io ho fatto piangere lui! Ritengo sia molto importante anche l'atto esteriore della richiesta di perdono. Dire:"scusami" non e' mai una perdita di tempo anche se onestamente non e' per nulla facile.

Altra risposta alle varie domande sui "massimi sistemi" mi pare possa essere il mio impegno per non essere geloso: l'invidia e' stata individuata dalla saggezza millenaria della Chiesa come uno dei tre vizi capitali. Quanta profondita' in questa scelta.

A 62 anni, ho tristemente toccato con mano come la gelosia sia un tarlo che mina alla radice non soltanto gli ambienti laici, ma anche quelli ecclesiali.

Alla base di tutto ci sono alcuni "specchietti delle allodole" in cui tutti cadiamo: volenti o nolenti, noi cerchiamo umana considerazione; siamo assetati di un riconoscimento sociale che tenga conto del nostro effettivo valore che normalmente riteniamo sottovalutato; siamo spesso "rattristati" dal successo del nostro prossimo e desidereremmo ardentemente godere della stessa considerazione a lui tributata.

La gelosia e' anche per noi una grande illusione: crediamo piu' o meno inconsciamente che, dando una lezione al nostro vicino, noi troveremo una qualche gioia o soddisfazione... magari poi rivestiamo questi sentimenti cosi' bassi da non poter essere confessati neppure a noi stessi, con alte motivazioni religiose: asseriamo di voler correggere fraternamente il nostro amico; diciamo a noi stessi che la nostra azione ha come scopo la soluzione di qualche problema sociale all'interno del gruppo; arriviamo forse persino a pensare che agiamo per salvare l'anima del nostro vicino.

Ma poi basta una mezz'ora di silenzio davanti al tabernacolo per renderci conto di meritare ancora la lapidaria frase latina:"mors tua, vita mea". Ed e' proprio in tali momenti di verita' di fronte a Dio che dobbiamo ammettere che la gelosia non ci fa piu' felici. E' solo una forza distruttrice contro cui dobbiamo lottare continuamente, perche' ha in se' la potenza diabolica di destrutturare gruppi e comunita'.

Molti miei amici poi amano filosofeggiare sulle incoerenze della Chiesa. A loro rispondo che il primo incoerente sono io, e che quindi non mi sento di "scagliare la prima pietra". Pero' timidamente cerco anche di cambiare il loro angolo visuale: davanti a Dio conta solo la nostra personale coerenza; non ci sara' chiesto conto di come sono vissuti gli altri, ma di come ci siamo comportati noi.

E qui ritorno al primo punto di questa mia riflessione: il volersi bene. Se leggiamo attentamente il Vangelo, Gesu' ci dice che l'amore e' il primo e piu' importante comandamento. Sant'Agostino arriva ad affermare: "Ama, e fai quello che vuoi".

E ancora: nell'episodio in cui leggiamo della peccatrice che gli ha profumato i piedi, Cristo afferma che "le e' stato molto perdonato, perche' ha molto amato".

Queste citazioni mi portano a pensare che, se amiamo veramente Dio e gli altri, sara' difficile commettere peccati veramente grandi. Ed inoltre, siccome poi perfetti non lo siamo davvero, e la Bibbia ci ricorda peraltro che anche il giusto "pecca sette volte al giorno", allora abbiamo nell'amore la possibilita' della conversione e del perdono divino. E' infatti ancora il Nuovo Testamento a dirci che "la carita' copre un gran numero di peccati".

In conclusione di questo sproloquio che forse vi ha annoiati terribilmente, spero di aver potuto comunicare anche solo un punto: quello che conta e' amare e cercare, nei limiti del possibile, di non far del male agli altri.

 

 

martedì 13 febbraio 2024

SE VOGLIAMO AVERE UN FUTURO...


Io credo che, se continuiamo a voler bene ai poveri, a dar loro la priorità, a sacrificarci per loro giorno dopo giorno, la gente continuerà a credere in noi e la nostra opera continuerà ad essere significativa.

I poveri sono il nostro parafulmine e, finchè il nostro cuore appartiene a loro, la nostra azione ed il nostro servizio saranno stabili e duraturi, perchè costruiti sulla roccia e benedetti da Dio.

I problemi cominceranno quando le nostre giornate saranno "vuote" di poveri, quando avremo tanto tempo libero per pensare a noi stessi e poco tempo da dedicare agli altri, quando non ci sacrificheremo più per il nostro prossimo.

 Vedere l'ospedale pieno è per me sempre una gioia, non tanto perchè soffro di megalomania, ma piuttosto perchè sinceramente ritengo che, se la gente ci apprezza e si fida di noi, ciò significa che anche Dio è contento di quello che facciamo. Un ospedale deserto mi porterebbe a dubitare che forse il Signore mi stia mandando un messaggio per farmi capire che c'è qualcosa che non va.

Anche i nostri sostenitori saranno con noi finchè ci vedranno donati completamente, mangiati letteralmente dal servizio e dalla stanchezza; se cominceremo ad evitare la fatica, le persone scomode, i lavori pesanti, i servizi che richiedono impegno continuo per ventiquattr'ore al giorno, allora anche i benefattori  pian piano diminuiranno, e noi ci troveremo soli.

La dedizione e la donazione sono il segreto per il nostro futuro: finchè avremo il coraggio di sacrificarci e spenderci totalmente, finchè non metteremo i nostri diritti personali davanti a quelli dei poveri che bussano alla nostra porta, finchè i nostri reparti saranno pieni e noi saremo presenti con i malati ogni giorno della nostra vita, allora non avremo nulla da temere: continueremo  ad andare avanti, i benefattori ci sosterranno, i malati si fideranno di noi, e le nostre forze si rinnoveranno ogni giorno.

La nostra motivazione sarà quella che ci manterrà forti ed in salute, impedendoci di crollare.

Questa è per me un'esperienza vissuta e sperimentata giorno dopo giorno: se i miei ideali rimangono alti, se la voglia di donarmi completamente permane forte, allora, anche dopo giornate incredibili ci si sente gratificati e contenti, soddisfatti e ripagati di tutto. Basteranno poche ore di sonno per essere nuovamente freschi ed entusiasti .

 Il futuro è certamente nelle mani di Dio, ma oso dire che è anche un po' nelle nostre: il disimpegno, la pigrizia, l'egoismo certamente non portano ad alcun futuro, mentre la fedeltà ai poveri, il servizio incondizionato fino al sacrificio della vita, la dedizione quotidiana e persistente, le motivazioni forti e gli ideali sempre alti sono la nostra certezza morale che possiamo avere una rilevanza nell'oggi ed una continuità nel futuro.

sabato 10 febbraio 2024

GRAZIE, MICHELA!


Di cuore ringrazio la dottoressa Michela Delorenzi, specialista in ortopedia, per le tre settimane di servizio presso il nostro ospedale a Matiri.

E' stato bello lavorare con lei ed imparare nuovi concetti e nuove tecniche dell'ortopedia più moderna.

Spero che anche lei si sia trovata bene a Matiri, come lo è stato per tutti noi.

La ringraziamo, con la speranza che possa tornare nuovamente in un futuro non troppo lontano.

Grazie anche alla Fondazione Nala di cui la Dottoressa fa parte: speriamo che Michela sia un apripista per tanti altri ortopedici, che accogliamo con il cuore fin da ora.

giovedì 8 febbraio 2024

ERA ECTOPICA


Lillian è stata ricoverata in ospedale per una seria anemia in gravidanza.

Ha tre grammi di emoglobina, ma stranamente è in condizioni generali discrete...riesce addirittura a camminare.

Abbiamo proceduto subito alla trasfusione della prima sacca che ha fatto salire di un grammo la sua emoglobina.

Mentre aspettavamo le prove crociate per le altre due sacche disponibili, abbiamo pensato di fare una ecografia, per sincerarci delle condizioni del feto: la gravidaza era di quasi quattro mesi e certamente l'ipossia creata dall'anemia non stava facendo del bene al nascituro.

Lillian è venuta in ecografia tranquilla, anche se in carrozzina. Ci parlava della sua gioia per la prima gravidanza. Ci diceva che sperava tanto fosse un maschietto.

Lucia l'ha accolta con entusiasmo, ma messo la sonda sulla pancia ed ha visto che il feto era vitale. Anche lei era contenta, ma la situazione è precipitata rapidamente: muovendo la sonda sull'addome, Lucia ha compreso che il feto non era in utero e che attorno al sacco amniotico c'era una quantità ingentissima di sangue.

Si trattava quindi di una gravidanza extrauterina, ormai rotta in quanto c'era abbondante emoperitoneo.

E' stato difficilissimo dirlo alla donna. Ovviamente si è disperata ed ha pianto tanto.

Poi però siamo riusciti ad operare.

C'erano 3 litri di sangue in addome: ecco la causa dell'anemia.

La paziente è stata sempre stabile durante l'operazione in cui abbiamo rimosso una gravidanza extrauterina addominale.

E' stata trasfusa con altre due sacche di sangue ed il post-operatorio è regolare.

Le ho assicurato che potrà comunque avere bambini in futuro, perchè l'altra tuba è normale.

Mi pare che sia relativamente serena.

martedì 6 febbraio 2024

L'ESAME


 

 Era il giugno 1976, ed io sedevo su un banco dell'aula-studio dell'Istituto Salesiano di Lombriasco (To). Ero terrorizzato, mentre aspettavo che Don Franco leggesse il titolo del tema per il nostro esame di terza media.

Poi la sorpresa: era veramente facile, e oggi direi anche scontato.

"Che cosa voglio fare da grande?"

Ricordo con grande vivacità che mi sono messo al lavoro immediatamente, ed ho svolto il mio componimento sviluppando l'idea che sarei diventato un medico missionario.

Le parole scorrevano libere ed io mi sentivo sollevato… l'esame sarebbe iniziato bene: ricordo di aver scritto che sarei andato in Burundi… non so neppure perché. Certo non avevo conoscenze geografiche sufficienti per capire di quel che stavo parlando. La mia immaginazione mi portava però a pensare ad un piccolo villaggio, in cui io, medico bianco, vivevo in una capanna del tutto simile a quelle della gente a cui mi ero totalmente votato. La mia casa aveva il tetto di paglia, come tutte le altre, e si affacciava su un grande spiazzo di terra bianchissima, come le spiagge dell'Africa Orientale.

Immaginavo code interminabili di malati, di donne con bambini piccoli in braccio, di uomini piagati.

Sognavo che li avrei curati tutti, ed avrei saputo dire di sì sempre, senza cadere nella stanchezza e nel nervosismo. Mi auguravo una dedizione totale ed incondizionata, ventiquattro ore al giorno. Pensavo che avrei voluto fare qualsiasi cosa per loro: se erano sporchi, li avrei voluti lavare; se avevano ferite, li avrei medicati o suturati; se non avessero avuto da mangiare, avrei comprato io il cibo. Solo a questo punto, dopo aver soddisfatto tutte queste necessità basilari, avrei messo a loro disposizione le mie conoscenze scientifiche di medico.

Immaginavo un caldo torrido ed una foresta verdissima a fare da greca al nostro villaggio. Alla sera mi pensavo stanco in un semplice giaciglio a prendere sonno senza problemi, perché avevo dato proprio tutto per i poveri.

 

Non so se posso dirlo, ma credo che questo sogno fosse già, in germe, un segno, un bagliore di una chiamata che mi è rimasta nascosta e nebulosa ancora per molti anni… certamente comunque è stato un seme che non è morto e che poi ha trovato modo di germogliare e di crescere, seppure in condizioni leggermente diverse e forse meno poetiche.

Sono in Kenya e non in Burundi; sono in un ospedale e non in una capanna… ma tante cose si sono perfettamente avverate.

La coda di gente che ti assale dal mattino a notte avanzata è certamente una realtà quotidiana, che diventa anche un test per la mia pazienza e la mia costanza: a volte alla sera sono così stanco che non riesco neanche più a parlare… Come oggi per esempio, quando la prima emergenza è arrivata alle 6 di mattina e l'ultimo paziente è stato visto alle ore 19.

Anche ora a Matiri mi addormento subito, nella certezza che più di così non posso dare.

Però non dormo in una capanna, e so che così non potrebbe essere: un medico, al di là della componente idillica, non può lavorare con le sue mani soltanto. Ha bisogno di strumenti anche costosi, di materiale diagnostico, di sale operatorie, di laboratorio analisi.

Essere in una capanna insieme alla gente potrebbe certamente essere più poetico, ma non è detto che poi corrisponda a ciò di cui la gente ha più bisogno.

Come nel mio sogno iniziale, anche ora comunque veramente cerco di dare la massima attenzione ai bisogni primari dei pazienti: non mi considero un medico altezzoso. Se c'è bisogno, mi va benissimo fare lo stesso lavoro delle signore della pulizia: che senso avrebbe infatti dare l'antibiotico più costoso, o fare l'intervento più difficile, se poi il malato dovesse languire nei suoi escrementi o non avesse da mangiare?

Essere un medico missionario è ancora il mio sogno, un sogno faticoso, impegnativo e spesso durissimo. E' comunque anche un sogno esaltante, gratificante e capace di riempirti dentro. 

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