Lydia ha diciassette anni ma ne dimostra circa quattordici. Da un occhio ha una cataratta congenita, e questo le da’ uno sguardo “guercio” che e’ impossibile non notare.
Non ha un dente sano: sono tutti cariati e ridotti a pezzettini nerastri.
E’ handicappata mentale… forse con tratti somatici Down, e vive con una mamma che sembra sua nonna.
Gia’ tutto questo potrebbe bastare per una vita alquanto “scarognata” per lei e per la sua famiglia: dal modo in cui sono vestiti, certo non navigano nell’oro… ed anche cio’ non aiuta una situazione gia’ difficile.
Ho conosciuto Lydia due settimane fa, in quanto ce l’han portata a causa di una grossa massa al di sotto del ginocchio sinistro. La visione di quella sfera enorme e saldamente attaccata al piano osseo non mi ha ispirato niente di buono.
Ho deciso di intraprendere la via anglosassone: verita’ diretta e cruda, in modo da creare uno shock che poi si possa trasformare in azione urgente. Ho parlato alla mamma e le ho comunicato che quasi sicuramente si trattava di una formazione maligna. Le ho consigliato di non aspettare ulteriormente. Lydia deve vedere un oncologo e forse avrà bisogno di radioterapia.
Le avevo fatto un’agobiopsia ed il risultato e’ stato crudele.
Ancora si e’ ripetuto il vecchio proverbio del “piove sempre sul bagnato!”.
Lydia ha un osteosarcoma molto indifferenziato… cosa che, in parole povere, significa tumore osseo molto maligno. Per questo tipo di “kappa” so benissimo che anche la radio e la chemio fanno relativamente poco.
Per cui ancora mi affido alle brutali modalita’ anglosassoni, per convincere la mamma ad agire immediatamente. Le comunico la diagnosi senza inutili sottintesi; poi aggiungo: “Bisogna fare altre indagini per verificare se il tumore maligno e’ ancora limitato alla gamba o se e’ gia’ diffuso in tutto l’organismo.
In questo senso, il tempo e’ la nostra unica risorsa. Bisogna agire al più’ presto, prima che si verifichi l’ineluttabile.”.
La reazione e’ naturalmente di disperazione. La mamma piange per ore e
non riesce a decidere da sola. Deve andare a casa e parlare con il marito e gli uomini del suo clan: solo loro possono dare il permesso per quanto le ho proposto: una amputazione sopra il ginocchio.
La imploro di lasciarmi la bambina in ospedale e le prometto che non faro’ nulla senza il suo permesso. Mentre la donna scompare fuori dal cancello, io mi appresto a far partire al piu’ presto la “macchina
diagnostica”: emocromo, esami epatici e renali, ecografia dell’addome e lastra del torace. Fortunatamente, pur con tutte le limitazioni che qui sperimentiamo, la stadiazione del tumore pare molto incoraggiante: non sembra ci siano metastasi.
Lydia e’ molto instabile ed agitata in ospedale senza la mamma. Forse e’ la prima volta che si trova da sola senza il sostegno della genitrice, e manifesta il suo dolore nei modi piu’ congeniali alla sua situazione di diversita’: lei non sa parlare, e quindi ci urla il suo disagio; non le siamo simpatici, e ce lo fa capire mordendoci le braccia ogni volta che tentiamo di farle l’igiene. La cosa piu’ bella e’ comunque che non rifiuta di alimentarsi.
Passano tre giorni, che a noi paiono piu’ lunghi di tutta la quaresima. Poi la donna torna. E’ accompagnata da un uomo mal vestito, ed ancor piu’ vecchieggiante di lei: non so se sono davvero anziani, o se e’ la vita dura che li ha ridotti cosi’!
La mamma piange e non parla; gesticola e prega ad alta voce, come spesso si vede in certe chiese evangeliche. In un bisticcio
inopportuno, data la situazione drammatica, mi viene in mente una scena del film: “the blues brothers".
E’ il marito a darmi permesso di amputare, ed immediatamente mi riprendo da quella divagazione, provandone anche un vago senso di colpa.
Chiedo che la madre si fermi in ospedale per tutto il tempo della degenza, perche’ per noi sarebbe troppo difficile gestire la bambina, handicappata ed un po’ violenta, durante il post-operatorio.
Lei non parla e continua le sue implorazioni cantilenanti, ma un cenno
degli occhi del marito mi fa capire che la mia richiesta sara’ accolta.
L’intervento e’ stato lungo e difficile, per varie ragioni. La piccola ha naturalmente rifiutato il catetere ed ha “mollato” pugni e
“morsiconi” alla infermiera che le prendeva la vena. Anche in sala e’ stato tutt’altro che semplice. L’anestesista ha dovuto sedarla, per poter poi praticare l’anestesia spinale. L’operazione e’ durata piu’ di due ore, ma e’ andata liscia.
“Non mi piace fare questo tipo di operazioni… ma soprattutto mi rivolta che dobbiamo anche tagliare la gamba ad una bambina gia’ cosi’ tanto sfortunata e sofferente”.
Subito dopo la dimissione la manderemo dall’oncologo.
Fr. Beppe Gaido
Nessun commento:
Posta un commento
Grazie per il commento.