Strumento agricolo multiuso, venuto tristemente alla ribalta durante il genocidio del Rwanda nel 1994.
Da noi si chiama panga in Kiswahili, o gipanga in Kimeru. E’ un misto tra accetta e coltellaccio. Serve un po’ per tutto: tagliare l’erba per le mucche o il legname per il fuoco della cucina; ma anche rigirare le zolle di terra prima di seminare o eradivare le erbacce, proprio come se fosse una zappa. Ne abbiamo una anche noi in macchina… non per difenderci dai malviventi, ma per scavare nel fango nel caso in cui ci dovessimo impantanare nella stagione delle piogge.
E’ anche usato nelle suole primarie e secondarie durante le ore di “agricoltura”.
Ma spesso e’ anche l’arma a portata di tutti con cui si fanno danni estremi: e’ infatti pesante come un’ascia, tagliente come un pugnale… ed a buon prezzo quanto una bottiglia di birra.
In mano ad un ubriaco o ad un folle diventa un mezzo di distruzione che spesso lascia danni irreversibili.
E’ quello che e’ successo a Gideon, il quale si e’ messo a litigare con un familiare per non so quale ragione.
Cio’ di cui sono stato testimone e’ il disastro causato da un colpo di machete infertogli con violenza alla mano sinistra. La violenza della “pangata” ha sezionato di netto radio e ulna a livello del polso, e con essi anche nervi, tendini ed arterie.
Ce lo hanno portato in una pozza di sangue. Avevano cercato di fermare l’emorragia avvolgendo delle camicie a monte del taglio per farne un laccio emostatico. Poi avevano appoggiato la mano che penzolava - appesa al resto del corpo solo da pochissima carne dalla parte dell’ulna - su un pezzo di legno fissato a mo’ di stecca.
Le sue condizioni erano veramente gravissime. La pressione arteriosa era praticamente imprendibile, ed il paziente sudava freddo.
Abbiamo trasfuso con urgenza, e poi ci siamo trovati davanti alla scelta piu’ difficile: amputare o tentar di salvare la mano?
Alla fine ho deciso di provarci.
L’arteria radiale era integra e pulsava bene sotto il mio polpastrello, anche se l’ulnare era “partita”. Ho quindi riposto la mia speranza nei circoli collaterali che avrebbero forse potuto vicariare.
Ho cercato di fare le tenorrafie: per la parte estensoria del polso e’ stato ragionevolmente semplice, mentre per quella flessoria e’ stata un’impresa disperata.
Per le ossa della mano ci siamo affidati a fili di Kirshner e ad un fissatore esterno.
Abbiamo quindi ripristinato muscoli, fasce e cute.
Non sappiamo se la mano si riprendera’. Abbiamo qualche speranza che la radiale possa essere sufficiente ad irrorare il resto dei tessuti, ma non ne siamo sicuri.
Tra alcuni giorni avremo la sentenza.
Se la mano sara’ cianotica e fredda, si dovra’ purtroppo procedere alla amputazione… se invece sara’ calda, e con un colorito vitale, avremo davvero fatto qualcosa per Gideon.
Poco dopo aver finito il lavoro con lui, ci siamo ritrovati di fronte ad una donna con la faccia gonfia, tanto da non vederci. Aveva un taglio profondo al di sopra dell’occhio destro. La ferita sanguinava profusamente ed attraverso essa si intravvedeva la teca cranica parzialmente fratturata dalla violenza del colpo.
“Ecco un altro dei bei lavori del machete. Chi e’ stato a ridurti così".
“Mio marito”.
Rimango senza parole e non so cosa dire. La mia testa continua a rimuginare la scena. Penso tra me: ci si sposa per amore e poi guarda a che punto si puo’ arrivare.
L’altro pensiero che mi ritorna ogni volta che spendo ore per riparare i danni della panga è che: a distruggere ci vuole un minuto, mentre per ricostruire e riparare ci vogliono ore ed ore, senza poi neppure sapere quanto sei riuscito a recuperare della funzione originaria.
E da ultimo, è impossibile per me non pensare al genocidio del Rwanda, a quei 100 giorni di pura pazzia, in cui il machete è stato l’arma di distruzione di massa per massacrare altri esseri umani, compresi i
bambini. Non oso pensare cosa sia potuto essere lavorare in ospedale in quei giorni di violenza, in cui gli attacchi da machete ti arrivavano a centinaia, giorno e notte!
Fr. Beppe Gaido
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