lunedì 25 settembre 2023

VORREI AVERE 100 BRACCIA

VORREI AVERE 100 BRACCIA PER SERVIRE TUTTI I POVERI E I MALATI DEL
MONDO (San Camillo de Lellis)

Carissimi,
ho deciso di scegliere questo titolo, perchè è una frase stupenda, una
in cui mi trovo perfettamente a mio agio e che costituisce per me non
un ideale raggiunto ma una tensione quotidiana. Anche io come san
Camillo vorrei avere 100 mani perchè mi rendo conto che i bisogni sono
così tanti che spesso due non bastano. Vorrei avere un cuore più
grande, perchè a volte mi sento meschino e non so ascoltare con la
dovuta attenzione, non so dimenticare me stesso per fare spazio agli
altri nel bisogno, divento nervoso e irritabile quando il lavoro mi
soverchia. Desidererei essere capace di dormire solo due ore per notte
su una sedia, come faceva il Cottolengo, per essere sempre pronto alla
chiamata dei suoi poveri... ma poi mi rendo conto che non ce la
faccio, che spesso ho un senso di rifiuto verso i pazienti, che vorrei
essere ascoltato piuttosto che ascoltare sempre e solo i problemi
degli altri. Comunque è importante tenere alti gli ideali e
ringraziare che ci siano giganti come San Camillo o come il Cottolengo
che ci stimolano a non essere mai soddisfatti di noi stessi, e ci
ripetono: "...più cuore in quelle mani, fratello!"
Madre Teresa di Calcutta non permetteva alle sue novizie di andare in
servizio senza il sorriso sulle labbra. Si racconta che un giorno
richiamò in convento una suora che si era recata in reparto con una
faccia scura, e le aveva detto che Gesù aveva diritto al suo sorriso.
All'inizio ho trovato questa azione della Fondatrice molto strana, ma
pian piano comincio a capire il significato pedagogico che essa voleva
comunicare: dare il meglio al Signore che contempliamo nei poveri;
fargli sentire che Egli è il nostro tutto e che si merita il massimo
in ogni momento. Quanto è difficile anche questo aspetto della carità!
Quante volte andiamo in reparto con il muso lungo, magari portandoci
dietro gli strascichi di un litigio o di una incomprensione con
qualche membro dello staff. Poi i poveri diventano i nostri "capri
espiatori": su di loro scarichiamo il nostro malumore e spesso anche
il nostro nervosismo. Tante volte certi malati ricevono lavate di capo
o parole rudi, per il solo fatto di aver attraversato la nostra strada
nel momento sbagliato. Anche qui abbiamo una frontiera sempre
difficile nel nostro quotidiano: essere buoni e gentili; essere
sorridenti ed accoglienti è molto di più che lavorare per gli altri 24
ore al giorno. Si può fare lo stesso servizio umiliando chi lo riceve
e facendogli capire "che proprio ci ha rotto"; oppure si può agire con
carità in modo discreto e gentile, in modo che nessuno possa star male
a causa dei servizi da noi ricevuti.
Credo che la carità verso il prossimo possa diventare in se stessa una
spiritualità che guida tutta la nostra vita: essa diventa una sintesi
in cui possiamo davvero far convergere e concentrare gli aspetti più
importanti della vocazione cristiana.
Che grande valore ha il lavoro per i bisognosi, quando in essi si
cerca di contemplare il volto di Gesù: esso diventa per noi il modo
concreto di raggiungere la contemplazione, e di dare concretezza alla
nostra preghiera.
Sappiamo dal Cottolengo che "è una bella cosa sacrificare la salute,
ed anche la vita per aiutare i più bisognosi", e dobbiamo ammettere
che è vero: quando abbiamo dato veramente tutto; quando ci sentiamo
come svuotati e mangiati dagli altri, sperimentiamo una pace profonda
che nessuna forma di svago ci può far provare; facciamo l'esperienza
della carità autorigenerante: infatti, quanto più si dà, tanto più si
scoprono in se stessi energie mai prima sospettate. Si credeva di
essere sull'orlo dell'esaurimento nervoso, ed invece quasi per magia
si sperimenta che si ha di nuovo voglia e soprattutto lucidità per
ricominciare.
Il Cottolengo ci voleva capaci di dedicarci a Gesù presente nel povero
fino al sacrificio della vita: quanto siamo ancora lontani, ma per me
questo è un ideale costante. Tanti altri aspetti della mia
spiritualità si sono un po' persi per strada, ma questo rimane fermo
ed inossidabile: qui è la strada che mi sento di poter continuare a
percorrere, per tentare di diventare un po' come il Cottolengo o come
Madre teresa di Calcutta. In questo ideale vivo la mia preghiera
quotidiana: magari non sono stato capace di fare grandi meditazioni, o
forse ho dormito nei pochi minuti che sono riuscito a ritagliarmi in
cappella, ma almeno ho cercato di non dire di no a nessuno, mi sono
sforzato di esser buono e sorridente, e quando non ci sono riuscito,
il senso di colpa che ne è derivato, mi ha fatto star così male da
diventare automaticamente uno stimolo al miglioramento.
Tutti siamo alla ricerca di una stella polare, di una idea forza che
dia unità e senso alla nostra vita: io l'ho trovata in questa
dimensione di dono di me stesso senza misura e senza limiti, una
dimensione a cui ogni giorno vengo meno a causa del mio egoismo, ma
che si ripresenta viva e chiarissima dopo ogni mia meschinità e
pigrizia.
Spesso penso ai poveri come ad un'ostia consacrata: loro sono Gesù che
soffre ed i letti sono come degli altari. Io quindi ho la grande
fortuna di poter toccare quest'ostia dal mattino alla sera; ho anche
la responsabilità di trattarla bene e di non mancare di rispetto. Ecco
quindi che per me, il reparto può diventare una cattedrale, con tanti
altari quanti sono i letti. Ecco quindi che faccio fatica pensare
alla vecchia dicotomia tra lavoro e preghiera, tra ospedale e
cappella: mi sembrano solo due facce della stessa medaglia.

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