mercoledì 8 febbraio 2023

Il cesareo non sempre è un piccolo intervento

Sono le 5:30 ed il cercapersone mi sveglia improvvisamente strappandomi dalle braccia di Morfeo, in cui ero caduto da pochissime ore, a causa di un’altra emergenza la sera tardissimo.
Evangeline esprime la sua sentenza in modo lapidario: “Cesareo. Donna con pregresso cesareo un anno fa!”.
Parte la routine delle emergenze, dopo una veloce sciacquata al viso con acqua gelata.
La speranza che nutro è quella di un’operazione non complicata, che magari ci permetta anche di andare a Messa in parrocchia.
Sono il primo ad arrivare in ospedale, e chiedo ad Evangeline di portare la paziente in sala ma ecco che iniziano i problemi.
La donna perde i sensi mentre la spostiamo dalla barella.
La stendiamo sul pavimento e cerchiamo di misurare una pressione, che è comunque imprendibile.
Guardo velocemente la congiuntiva, e mi sembra che la donna sia anemica come un lenzuolo.
La nostra adrenalina sale alle stelle.
Trasportiamo la malata in sala, mentre cerchiamo sia di infondere liquidi che di trasfondere sangue. In frigo infatti abbiamo una sacca che possiamo usare!
Ma le difficoltà non cessano.
La cannula è fuori vena, e la paziente è collassata. Facciamo fatica a trovare un altro accesso venoso. Miracolosamente riesco a “prendere” la giugulare interna, attraverso cui infondiamo prima fisiologia a go go, e poi sangue.
Finalmente reperiamo anche un secondo accesso periferico, che usiamo per darle altro “Ringer”.
L’anestesista tenta più volte la spinale ma poi si arrende. Dobbiamo operare in anestesia generale.
Apriamo la pancia velocemente. Sappiamo che la situazione è critica, e possiamo perdere l’operanda in ogni momento.
Bisogna comunque correre perchè il monitor è continuamente in allarme: la pressione rimane imprendibile, nonostante trasfusione ed infusione veloce di fluidi.
Lavoriamo con tensione ma con ordine.
Appena aperto il peritoneo, ci rendiamo conto della causa del collasso cardiocircolatorio della mamma.
C’è sangue in addome tanto sangue! Ne veniamo invasi dalla vita in giù in quanto l’aspiratore non riesce a recuperalo in tempo prima che si riversi sul pavimento.
L'utero è rotto ed il sacco amniotico sporge dalla ferita chirurgica.
L'estrazione del bimbo, dopo l’apertura delle membrane, è immediata ma ci rendiamo conto che non ci sono segni di vita in lui.
La tristezza e la depressione rifanno capolino nel mio cuore, ma l'allarme quasi impazzito del monitor che mi segnala la persistente assenza di pressione arteriosa, mi richiama alla realtà.
Non c’è tempo per autocommiserazioni (magari il neonato sarebbe vivo se avessimo "beccato" la spinale al primo colpo se la vena non fosse stata fuori!): guardo il sangue che ancora fluisce libero nel deflussore verso la giugulare interna della donna, e mi riprendo: "ci dobbiamo concentrare sulla mamma; se no, perdiamo anche lei!".
Fortunatamente la rottura è avvenuta sulla rima della precedente cicatrice chirurgica. Si tratta di una lacerazione lineare che non ha raggiunto importanti vasi arteriosi. Si può quindi riparare l’organo evitando un'isterectomia d'urgenza, che sarebbe un disastro per quella mamma ed un incubo per noi, date le condizioni del nostro staff.
Lavoriamo in silenzio, quasi meditando sulla morte del bimbo e continuando a sperare che la pressione risalga.
Peter gestisce l'anestesia senza grossi "singhiozzi", e noi giungiamo presto alla cute.
Mentre medichiamo la ferita addominale, per la prima volta il monitor ci avvisa che la "massima" è arrivata a 80 e che quindi ci sono speranze.
La donna si sta svegliando, in preda a incubi che solo lei conosce.
Bisogna tenerla ferma in quattro, perchè non si strappi la giugulare.
La laviamo e la portiamo a letto mentre è ancora in uno stato di sopore ora più tranquillo.
La prima cosa a cui pensare è adesso una doccia. Siamo imbrattati di sangue dalle ginocchia in giù.
Ma subito mi ricordo di una cosa importantissima: "oggi dovremo trasfondere un’altra sacca, magari chiedendola in prestito ad un altro paziente più stabile, perchè il suo gruppo è zero positivo, e non ne abbiamo altro in emoteca. La cosa più dura, anche se necessaria, sarà quella di dirle che il feto non ce l’ha fatta”.
“Ma perchè è morto il bambino?” mi chiede Evangeline.
“Quando si rompe l'utero, la pressione della donna crolla, e la perfusione placentare va praticamente a zero, causando ipossia ed asfissia nel nascituro. E' molto raro riuscire a salvare il bambino, nei casi di una breccia uterina di queste dimensioni. E' già tanto che la madre sia viva. Infatti pure la mortalità materna è altissima per tale complicazione”.

Fr. Beppe Gaido


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