mercoledì 30 novembre 2022

Kaburu, un miracolo che sia vivo

Sono le 6.30 e vengo chiamato in ospedalem mentre mi sto preparando per la messa: “Cosa e’ successo?” domando al telefono.
“Hanno portato un uomo tagliato dappertutto, e sta sanguinando molto!”
Comprendo che anche oggi saltero’ la messa, ma so che il Signore e’ molto meno formale di noi e capisce quando non possiamo proprio fare diversamente. Arrivato all’outpatient mi trovo davanti una scena raccapricciante. Aveva proprio ragione Paul. Quel vecchio tutto sporco di terra e’ veramente fatto a fettine. Mi assale un forte senso di scoraggiamento: non so come toccarlo, non ho idea di eventuali fratture ossee, e quindi bisogna fare lastre praticamente di tutto il corpo.
Per un momento il mio elettroencefalogramma resta piatto: mi passano davanti scene gia’ vissute, come quella di Kawira la sera di capodanno o come quella del vecchietto sbranato dai cani alcuni anni fa.

Cerco di concentrarmi e di dare un ordine logico alle mie azioni: dico alle infermiere di reperire una vena prima che l’uomo collassi e di infondere liquidi ad alta velocita’. Chiamo l’anestesista, il radiologo ed il laboratorista. Io stesso telefono all’infermiera di sala reperibile e le dico di venire subito.
Dai parenti raccolgo una storia molto triste: Kaburu e’ vedovo e vive da solo in una baracca di legno nel mezzo del suo appezzamento di terra. La casa piu’ vicina dista piu’ di un chilometro.
Nel cuore della notte sono arrivati dei ladri, che poi hanno iniziato a colpirlo all’impazzata. Il vecchio non ricorda quanti fossero. Sa solo che infierivano con il machete, e continuavano a “tagliare” anche quando ormai era a terra privo di forze, seppure ancora cosciente.
Posso verificare la veridicita’ di queste affermazioni in quanto le lacerazioni da panga sono veramente sparse su tutta la persona, compresi i piedi... e’ come se un malvivente si fosse ancora girato prima di andarsene, ed avesse colpito per l’ultima volta l’uomo che giaceva supino con i piedi verso la porta.
Nessuno ha sentito le sue urla perche’ la capanna e’ isolata, e Kaburu ha dovuto strisciare attraverso il suo campo per oltre un chilometro, arrivando poi alla casa dei vicini, che quindi lo hanno portato qui in ospedale con un carretto trainato da una mucca.
Mentre ancora stavo ascoltando la storia, vengo chiamato dalle infermiere perche’ il paziente era in shock a causa della forte emorragia. Anche prima di avere il sangue pronto decido di infondere dell’emagel, che serve per tenere su la pressione per un po’ finche’ si e’ pronti con la trasfusione.
Meno male che il paziente risponde bene! Dopo 500 ml di quella soluzione, riprende a respirare normalmente e a parlare, addirittura prima che iniziassimo la trasfusione.
La sutura di tutte quelle ferite e’ stata lunghissima: ci ha occupati fino alle 12.30. E’ stato un bel lavoro di équipe in cui sia io che Makena continuavamo a cucire in parti diverse del corpo. Abbiamo prima lavorato a paziente supino, e poi lo abbiamo dovuto girare a pancia in giu’ per riparare le lacerazioni della schiena. Tendini, muscoli, fasce, cute... tutto pian piano ritornava al proprio posto. Ci sentivamo come dei sarti. Tutto avveniva sotto gli occhi vigili dell’anestesista che si occupava delle condizioni generali del malato.
Dalle lastre sapevamo che il povero sventurato aveva anche due fratture: una alla gamba sinistra e l’altra alla scapola destra. Per l’arto inferiore abbiamo apposto un fissatore esterno. Per la scapola ci affideremo alla fasciatura ed alla mitella.
Kaburu adesso e’ a letto, e sorride: non ha male perche’ gli facciamo antidolorifici. I suoi figli non fanno che ringraziarci perche’ lo abbiamo salvato... A me pero’ e’ rimasta una domanda: perche’ tanta cattiveria? Perche’ infierire cosi’ brutalmente su un anziano inerme?
Come facevao i ladri a sapere che lui viveva da solo in quella catapecchia isolata? Forse i banditi vengono dallo stesso villaggio, e magari sono anche suoi vicini: lui dice di non averli riconosciuti perche’ era buio.
Ora questa gente violenta e’ a piede libero, e potrebbe attaccare altre persone che vivono da sole. Questo pensiero un po’ mi turba ricordandomi di tanti amici che vivono in casette di legno sparse per la boscaglia: “dobbiamo solo pregare che Dio ci protegga tutti”, mi dice Makena mentre da’ l’ultimo punto di sutura.
Io pero’ continuo a non capire perche’ l’uomo debba cosi’ spesso cercare la propria autorealizzazione nel far del male agli altri. Il mistero della malvagita’ umana mi turba e mi confonde: a distanza di duemila anni ancora e’ valido il detto romano: “homo homini lupus”, e noi spendiamo molto del nostro tempo a riparare i danni che i malvagi infliggono a gente innocente ed indifesa. Forse la riposta a questa domanda la trovero’ solo in Paradiso... per ora continuo ogni giorno con le mie battaglie, sperando di strappare alla morte quante più vite mi sia possibile.

Fr Beppe


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