Sabato scorso ho ricoverato Monica Kiende, una bellissima bimba di 9anni con caratteristiche somatiche vagamente somale. Al vederla subito mi ha ricordato Stella. Era magrissima, tanto che le si potevano contare tutte le ossa; la sua bocca era coperta di ulcere e di materiale biancastro che le impedivano sia di nutrirsi che di bere.
Era molto disidratata. La mamma mi diceva che aveva diarrea da tre mesi ininterrottamente, e che vomitava tutto quello che cercava di deglutire.
La sua pelle dall’aspetto vecchieggiante era coperta di macchie di colore scuro. Monica era debolissima, teneva gli occhi semichiusi e reagiva appena agli stimoli. I primi esami clinici sono stati spietati: il test HIV era positivo sia per la paziente che per la madre.
Dare la notizia è stato, come sempre, durissimo: avrei preferito fare 10 cesarei piuttosto che spendere quegli interminabili 30 minuti a parlare con quella donna disperata. Lei mi ha detto di essere sola, perché il marito era morto già da due anni, e prima del consorte era morta anche la secondogenita. Non sapeva di cosa erano mancati.
Al dispensario dove si era recata entrambe le volte parlavano sempre e solo di malaria. Da allora era rimasta sola cercando di prendersi cura dell’unica figlia rimasta, la quale però diventava sempre più gracile e molto spesso tanto malata da non poter andare a
scuola. Da tre mesi era successo il tracollo: Monica aveva iniziato con una diarrea acquosa, persistente ed invalidante: aveva smesso di camminare perché troppo fragile. La mamma l’aveva portata in molti dispensari e sempre aveva ricevuto la stessa risposta: ameba.
Alla fine ha deciso di iniziare il viaggio della speranza, nella fiducia che noi avremmo fatto il miracolo. Ma era troppo tardi per la bimba. Ho fatto il test dei globuli bianchi che erano talmente bassi da essere vicini allo zero. Ho quindi tentato la terapia salvavita: tanti fluidi (tra l’altro tutte le sue piccole vene erano collassate ed abbiamo dovuto ricorrere ad un vaso trovato quasi per caso sulla tempia di destra); correzione dei valori di glucosio nel sangue; terapia antiretrovirale per l’HIV.
Ma Monica guardava con occhio sempre più spento e privo di lacrime; non era neanche più in grado di sbattere le ciglia. Ho raccomandato alla mamma di fare attenzione alle mosche che insistentemente si posavano sulla congiuntiva della poveretta senza che lei potesse allontanarle. La donna era pietrificata. Continuava a pregare in una lingua che non comprendevo. Poi quando la piccola ha deciso che era il momento di andare in cielo la mamma si è messa a gridare di disperazione e a rotolarsi sul pavimento dello stanzone di pediatria.
Ho cercato di calmarla. Mi sono seduto vicino a lei sul letto dove ancora giaceva la sua unica figlia: ora era distesa e sembrava sorridere. Ho cercato di dirle che adesso la sua bimba non avrebbe più sofferto e che l’avrebbe aiutata dal Paradiso, ma lei mi ha guardato con occhio quasi violento e mi ha detto che io non potevo capire il suo dolore. Io le ho chiesto perché mi aveva detto quella frase dura.
E lei, tornando a piangere disperata, mi ha urlato: “Perché Monica non ti è entrata nella pancia!”… Per me quella frase è stata una legnata difficile da digerire, ma salutare: io non posso capire fino in fondo le mamme che perdono un bambino, perché questi per me sono solo pazienti, e non “carne della mia carne”. Essi fanno sì parte di me, ma in fondo io non ho sofferto per metterli al mondo, non ho speso notti insonni quando erano piccoli e non riuscivano a dormire, non ho fatto piani sul loro futuro…
E’ proprio vero che “un dolore che ti passa per la pancia” ha delle dimensioni difficili da comprendere dall’esterno. Devo accettare questo mio limite, ed allo stesso tempo impegnarmi sempre di più nella condivisione delle sofferenze altrui che piano piano vorrei far mie.
Mi rendo conto che la scelta di incontrare Dio negli ultimi, negli ammalati è una delle poche sicurezze che mi sono rimaste. O ricomincio sempre di lì, nella dedizione gratuita di un servizio quotidiano, o rischio di perdere in modo definitivo il senso di Dio e dell’uomo. O riparto da lì, con umiltà, accettando i miei limiti riscattati dall’amore che cerco di dare, o sono destinato a perdere la fede. Ma ce la farò. La vita che ci viene data proprio da coloro che sono i perdenti, che sono avvolti dal silenzio dei senza voce, una vita che, incarnata nell’umano, lo supera in ogni istante, è il nostro alimento quotidiano.
Mentre sono ancora assorto in questi pensieri la mamma di Monica mi dice che vuole iniziare la terapia per l’AIDS. Questo è davvero bellissimo, perché significa che ha ancora voglia di vivere e di pensare al futuro. Mentre le assicuro che le daremo le medicine che la faranno star bene ancora per molti anni, lei, con un cenno della mano mi indica un’altra bimba, più o meno coetanea della sua: è seduta nel letto a fianco, sorride in modo un po’ ebete, e chiaramente ci fa comprendere che vuole venirci vicino. Io la chiamo e la faccio sedere a fianco del corpicino senza vita di Monica. Lei mi fa le coccole e continua a fissarmi con un sorriso desideroso di affetto. E’ Kawira, una paziente di 8 anni che era stata portata da noi in stato comatoso.
Le avevamo fatto il chinino in vena ma lei era rimasta priva di coscienza per molti giorni. Poi aveva iniziato a migliorare fino alla completa ripresa… Purtroppo però la malaria cerebrale le aveva lasciato il marchio, e l’aveva ridotta allo stato di una povera handicappata mentale. Da quando i parenti si erano accorti che la piccola non era più normale, si erano dati alla fuga… ed ora Kawira è con noi da più di un mese. Nessuno viene a trovarla, e lei gironzola per l’ospedale in cerca di coccole. Lo staff si era affezionato molto e l’aveva soprannominata affettuosamente “fantasmino”, sia a motivo del suo volteggiare leggero per la stanza, sia per il suo sguardo un po’ vuoto ma sempre bisognoso di una carezza.
Ora le avevo davanti tutte e due: Monica, terribilmente voluta da una mamma ormai sola, non ce l’aveva fatta; Kawira invece era ritornata dal coma, ma ora che “era segnata dalla malattia” non la voleva più nessuno. Che mistero la vita: ho davanti una madre disperata che non è riuscita a salvare la figlia; e vicino a lei ho una bimba che non ha più la mamma soprattutto perché questa ha deciso che non avrebbe più voluto una figlia cerebrolesa.
Sempre più confuso, decido di accompagnare Kawira in un’altra stanza dove tra poco Silvia le farà il bagnetto; io invece vado in ambulatorio e procuro le medicine per la mamma di Monica, che mi chiede di lasciare l’ospedale immediatamente perché deve camminare ore ed ore e vuole essere a casa quando è ancora giorno. Prima di congedarla e di darle l’appuntamento per la visita successiva, provo a fare la domanda di rito: “dove seppellirai tua figlia?”… la risposta è stata proprio come me l’aspettavo: “e dove vuoi che la seppellisca; non ho neppure un pezzo di terra dove metterla, perché alla morte di mio marito, i suoi fratelli si sono spartiti il nostro piccolo appezzamento di terreno, e io sono stata costretta a tornare dalla mia vecchia madre. Seppelliscila qui in ospedale insieme agli altri bambini!”.
Anche questo è un altro dramma: la totale assenza di diritti delle donne che in Africa non hanno alcuna possibilità di ereditare e che spesso alla morte dei mariti, o in caso di divorzio, sono totalmente sul lastrico.
Con questi pensieri mi avvio nuovamente alla salma. La voglio comporre adeguatamente e desidero accompagnarla io alla camera mortuaria.
Kawira ancora mi segue: eh sì, siete proprio due angioletti, uno già arrivato in Paradiso e l’altro qui in terra a prepararselo.
Fratel Beppe Gaido
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