venerdì 13 marzo 2020

Pensieri

Per me è importante cercare di sorridere alla gente, anche quando non ne ho voglia, anche quando dentro sento ribellione o tristezza.
Credo che il sorriso sia parte del mio servizio e del mio apostolato: vorrei che il mio sorriso gentile ed affettuoso trasmettesse serenità e pace a chi sta male e da noi ci viene perchè disperato, povero ed ammalato.
Non sempre ci riesco: a volte la gente mi chiama “burbero” e mi dice che ho un caratteraccio scontroso; lo so di essere a volte incoerente, ma ciò non toglie che nel sorriso  io ci creda e che per esso mi impegni molto ogni giorno, pur con le mie debolezze. 
Chiara Lubich la chiamava l’ascesi del sorriso, un’ascesi difficile ma importante da perseguire.
Questo sorriso in cui credo, la serenità di fondo che permane anche nelle burrasche che  spesso si agitano dentro e fuori di me, affondano le loro radici profonde in quella poca fede che spero di aver conservato ancora, nonostante tutte le batoste che la vita mi ha dato: una fede che non passa attraverso ragionamenti teologici di cui non sono neppur capace, ma che si alimenta di un quotidiano in cui cerco di dedicarmi a quegli ultimi in cui mi sforzo di riconoscere il volto di Cristo.


Il mio sorriso certamente nasce dall’empatia che cerco con l’umanità sofferente, ma anche dalla bellezza della vita, soprattutto quando viene donata gratuitamente con amore.
I sofferenti sono la quotidiana verifica della mia piccola fede ed insieme la fonte della mia gioia; sono la rivelazione di quel Cristo che mi chiede di imprestargli le mia mani, il mio cuore e la mia mente, per soccorrerlo nelle più multiformi afflizioni: “Il bisogno delle persone, prive di ogni possibilità di cure , il loro grido di aiuto, sono stati un pugno allo stomaco che mi ha chiesto di moltiplicare le mie prestazioni, di sporcarmi le mani nelle loro fatiche, di non voltare mai la testa dall’altra parte” (cfr. Polvere Rossa)1.
La gioia di fondo che sopravvive anche nei momenti più bui e pieni di disorientamento, quotidianamente si rigenera nel rapporto con gli ammalati: spendendomi con tutte le mie forze per gli ammalati ho ritrovato una forza autorigenerante ed una gioia che sboccia direttamente dalla sofferenza altrui ed anche mia. 
Sono contento e sereno solo quando metto il malato al primo posto, solo quando mi alzo al mattino con la determinazione di dare il massimo e di fare dei sofferenti il centro della mia giornata e dei miei sforzi.
Quando vedo l’ambulatorio affollato, quando vedo quegli sguardi imploranti e rassegnati nello stesso tempo, penso spesso ai “vinti” di Verga, o ai “miserabili” di Victo Hugo; penso agli “invisibili della storia” di cui parla Alex Zanotelli: ma sono proprio loro gli artefici della mia gioia.
Gli ammalati mi insegnano ogni giorno che la vera felicità è quella sensazione di pace e di serenità interiore che provi quando t’immergi nell’esistenza di chi ti sta accanto e la vivi pienamente, come se fosse la tua.
Ma non è sempre facile ed a volte la gioia se ne va, e con essa il sorriso dalle tue labbra: può essere un insuccesso in ospedale, un malato che muore nonostante i tuoi sforzi, un’incomprensione, un giudizio negativo che non ti aspettavi, il senso di colpa per non aver dedicato tutto il tempo necessario alla preghiera. 
Ci sono momenti bui, quando le certezze di sempre, i riferimenti di una vita sembrano barcollare, sopraffatti da una stanchezza insostenibile, dagli insuccessi, dalle incomprensioni, dalla sensazione che lo stesso Dio sia assente.
Quando vivo queste “notti oscure” che a volte si prolungano per settimane, cerco di buttarmi ancor più nella dedizione totale, perchè lo so che “la mia scelta preferenziale per i poveri che hanno diritto di chiedermi un servizio fino al sacrificio della salute e della vita, è la mia strada maestra per andare a Dio e per ritrovare la gioia” (cfr: Polvere Rossa)1.
Nota: Beppe Gaido, Mariapia Bonanate. Polvere Rossa. Edizioni San Paolo.

Fr Beppe Gaido


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