Ha circa nove mesi di vita, e pesera’ sui cinque chilogrammi; ma forse meno.
La mamma continua a piangere di fronte al corpicino della sua piccola, continuamente scosso dalle convulsioni, e rovente come acqua in ebollizione.
Il valium, somministrato per retto alla bimba per ben due volte, non e’ servito a nulla e Kendi continua ad essere “agitata” da movimenti grotteschi della bocca, degli occhi e degli arti. Con cadenza quasi ritmica si inarca sulla schiena e diventa simile ad un semicerchio.
Non e’ cosciente ma, a vederla cosi’, pare che debba provare un sacco di dolore. Respira malamente, come se avesse una pentola a pressione nel torace.
Ho paura, ma ordino ugualmente che le si faccia del barbiturico in vena. Lo so che c’e’ il rischio che smetta di respirare a causa del sinergismo con il valium; ma, se non agiamo in tutta fretta, il suo cervello verra’ ridotto in poltiglia dai prolungati attacchi epilettici.
Gli infermieri mostrano qualche esitazione di fronte alla mia prescrizione, ma non fanno obiezione di coscienza a priori, e, dopo un breve dialogo, mi offrono piena collaborazione.
La madre si dispera e mi dice che e’ la prima volta che capita, e che la bimba non e’ epilettica.
“Lo so; e’ la malaria che causa tutto questo, e la febbre altissima fa anche lei la sua parte”.
Pochi minuti dopo l’iniezione in vena, Kendi si assopisce; il respiro rimane stertoroso, ma si fa piu’ regolare. Le faccio iniettare del lasix per scaricare un po’ quei polmoni cosi’ congesti, e mi preparo per la puntura lombare.
Non c’e’ rigidita’ nucale, ma a volte nei pazienti pediatrici la meningite puo’ presentarsi in modo veramente subdolo.
Ora la malata e’ rilassata grazie al fenobarbitone, e possiamo flettere in avanti la sua colonna vertebrale, ottenendo quindi una posizione ideale per la delicata procedura invasiva.
Infilo l’ago tra due delle sue piccole vertebre, e Kendi non reagisce.
“Il coma deve essere molto profondo se ha una tale insensibilita’ agli stimoli dolorifici”, mugugno rivolgendomi all’assistente.
Basta che io entri per poco piu’ di un centimetro ed il liquido dalle sue meningi comincia a gocciolare pian piano dentro le mie provette.
Lo osservo con attenzione.
Anche la madre guarda sbigottita e paralizzata. Credo che per lei sia durissimo accettare di vedere la sua Kendi con un ago nella schiena...
ma, allo stesso tempo, non vuole uscire dalla camera. Vuole assolutamente vedere quello che le facciamo!
Il liquido e’ limpido e non esce con pressione aumentata: “non credo che si tratti di meningite; ma proviamo comunque a far la ricerca della TBC. Sappiamo quanto sia frequente al giorno d’oggi”.
Nel frattempo, visto che la “goccia spessa” e’ risultata positiva, iniziamo con il chinino in vena.
In laboratorio sono molto efficienti e, pur essendo sabato, abbiamo il risultato in meno di mezz’ora: puntura lombare negativa. Si tratta di malaria cerebrale.
Questo mi fa ben sperare, perche’ i bambini rispondono straordinariamente al chinino e spesso sono “svegli” gia’ dopo la terza dose.
Dico alla mamma che l’indomani la bellissima Kendi le avrebbe sorriso nuovamente, e si sarebbe attaccata al suo seno ora turgido e dolente.
La donna pende dalle mie labbra; vuole credere in cio’ che affermo, anche se i suoi occhi tristi mi dimostrano chiaramente che nutre moltissimi dubbi al riguardo. D’altra parte le terribili condizioni generali della malata giustificano pienamente le sue riserve.
Le cose pero’ non vanno come pensavo io, e gradualmente mi rendo conto di aver illuso quella madre.
La malaria e’ sempre traditrice.
Kendi riprende quasi subito con le crisi epilettiche, e dobbiamo metterle del valium in infusione continua. Lo facciamo scendere “in doppia via” con il chinino.
Le convulsioni si calmano un po’ grazie al nuovo farmaco, ma le ritmiche contrazioni delle labbra e degli occhi vanno avanti imperterrite.
Il torace poi ricomincia a gorgogliare: le somministriamo del lasix, ma la piccola non urina affatto.
Intanto anche la sua glicemia scende a livelli pericolosi, e dobbiamo intervenire con glucosio per tamponare un possibile coma ipoglicemico.
Certo Kendi e’ gia’ in coma, ma sappiamo quanto velocemente i bassi livelli glicemici potrebbero ucciderla!
La madre non piange piu’. Ormai guarda il vuoto con occhio fisso e assente.
Mi allontano, cercando di dare un po’ di attenzione anche agli altri malati; ma quella disperata signora sa dove si trova il mio ambulatorio... viene e bussa nuovamente: “Kendi sta vomitando del materiale nero come il carbone!”
“Questa non ci voleva – penso tra me – tutte le volte che capita una emorragia gastrointestinale nel piccolissimi, poi non si riesce piu’ a salvarli”.
Mi faccio vedere forte, e l’assicuro che la medicina risolvera’ il problema... ma sono cosciente di mentire!
Passa poco piu’ di mezz’ora ed ancora la donna torna a chiamarmi: “Kendi non riesce respirare”.
“Lo so bene, ma cosa posso farci – rimugino nuovamente in silenzio – non ha risposto al lasix. E’ in blocco renale, e non abbiamo la dialisi”.
“Le mettiamo dell’ossigeno, e vedrai che migliorera’”, affermo in modo concitato... ma non so se mi abbia creduto.
Rimango con lei alcuni minuti, ed e’ evidente che Kendi sta andando in cielo.
Lo so io, ma ne e’ cosciente pure la madre, anche se non me lo sa dire. Si aggrappa al mio braccio e mi dice: “dottore, fa’ qualcosa”.
Io mi sento inutile e “buono a nulla”. Ho sparato tutte le mie cartucce, e non so piu’ cosa somministrale.
Prescrivo tutti i farmaci di rianimazione disponibili qui, ma la malata tira dei respironi sempre piu’ lunghi e sempre piu’ diradati.
Poi contrae i muscoli della faccia in una smorfia angosciante; estende braccia e gambe in una estrema e prolungata contrazione... fa un’ultima smorfia e ci lascia.
Il suo volto si rilassa, i suoi muscoli si detendono, e dalla sua bocca esce copiosamente del materiale nerastro che dal letto cola sul pavimento.
La mamma la tocca due volte; poi si gira verso di me, attendendo una conferma a cio’ che gia’ sa.
Io non parlo. e semplicemente faccio un segno di diniego muovendo impercettibilmente la testa.
Lei capisce tutto; si rotola sul pavimento disperata, ed urla a piu’ non posso.
Dico agli infermieri di starle vicino e di lasciarla piangere per tutto il tempo che voleva.
Io mi sento impotente e fallimentare, come tutte le volte in cui non riesco a salvare un paziente.
Mi allontano senza proferire verbo, e cerco di ricompormi prima di tornare in sala operatoria.
Fr Beppe Gaido
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