domenica 14 novembre 2021

Weekend

C’è chi parla di strane “congiunzioni astrali”, chi di sfortuna concentrata, c’è anche chi parla di malocchio. Sta di fatto che i  weekend sembrano stregati. E’ come se tutte le complicazioni più
strane si dessero appuntamento per colpire proprio nel momento in cui siamo più vulnerabili a causa del riposo settimanale del personale dipendente e anche all’assenza di medici.
L’ospedale di Matiri è stato quasi vuoto per anni.
Oggi la situazione è radicalmente cambiata e il sabato è un giorno lavorativo molto pesante. Forse le persone pensano che, venendo di sabato e di domenica, faranno meno coda e saranno visitati prima. Non considerano che se questa diventa una decisione collettiva, i tempi di attesa non sono inferiori a quelli degli altri giorni della settimana.
E nel week end sono solo!
Oggi pomeriggio il “malocchio” si è ripresentato puntualmente.
Avevamo appena finito con l’ultimo intervento ortopedico, ed erano già le 17. Speravamo in un momento di relax.


Invece è arrivata Gladys da Mukothima. Non si reggeva in piedi ed aveva un dolore addominale fortissimo. Sapeva di essere incinta di due mesi e temeva una minaccia d’aborto. Dopo un’emoglobina misurata al volo, ci siamo resi conto che era molto anemica, urgeva intervenire con delle trasfusioni. Per fortuna avevamo due sacche di sangue compatibile in frigo.
Gladys era arrivata in ospedale da sola. L’ecografia era stat spietata. Il “fetino” era morto, non nell’utero, bensì in un groviglio di materiale strano alla sinistra di quest’ultimo. Quel groviglio era  una grave minaccia, bisognava procedere subito. Siamo entrati in sala operatoria con il cuore in gola. La donna era in una condizione molto instabile ed eravamo pienamente coscienti che ci sarebbe stato il rischio di perderla per problemi legati all’anestesia, come per difficoltà legate alla gestione dell’intervento.
D’altra parte non avevamo altra scelta: era una gravidanza extra uterina.
Abbiamo inciso con circospezione e immediatamente siamo stati sommersi da una cascata di coaguli e sangue fresco che il nostro aspiratore non riusciva a “succhiare” . “Se non vediamo , non riusciremo mai ad operare” continuavo a ripetere, più a me stesso. Finalmente il nostro aspiratore ha fatto il suo dovere e siamo riusciti a procedere, ma ci siamo trovati di fronte un campo di battaglia con devastazioni in ogni parte: nessun organo era stato risparmiato. Probabilmente Gladys aveva sofferto per molti giorni, ma non aveva i soldi per raggiungere l’ospedale. La patologia aveva avuto il tempo di provocare una grave infezione che gradualmente le aveva creato una necrosi all’utero.
Bisognava asportare l’organo.
Gladys dormiva e non potevo interpellarla, non sapevo neppure se aveva altri figli. Ho guardato la sacca di sangue, l’ultima a mia  disposizione, che entrava a goccia a goccia nelle sue vene. Se volevamo salvarle la vita dovevamo decidere per lei. Ho deciso: “Procediamo e cerchiamo di fermare l’emorragia in atto”. L’intervento è continuato in modo difficoltoso e un po’ scoordinato.
Avevo costantemente lo sguardo sul monitor, perché una parte del mio cervello stava operando, l’altra parte stava cercando di impedire che la malata morisse sotto i ferri.
Dio ci ha messo del suo e siamo riusciti a portare a termine l’operazione, Gladys era salva. “Ora speriamo nel post- operatorio ripetevo a me stesso.
Ma ciò che più mi turbava era quanto mi aveva confidato Gladys prima di addormentarsi. Era stata per giorni in un’altra struttura  ospedaliera, dove non le avevano fatto nulla e dove l’avevano poi dimessa, assicurandole che non aveva nulla di grave.
Appena uscito dalla sala operatoria, mentre pregustavo finalmente un po’ di quiete e di riposo, mi sono trovato davanti gi occhi imploranti di Daniela, l’infermiera, che mi ha sussurrato: “Lo so che sei stanco, ma c’è una ecografia urgente. E’ una donna al termine della gravidanza. Non sento il battito fetale. Ha dolori addominali, non riesce a spingere. Dice di essere in queste condizioni da molte ore.
E’ arrivata con i mezzi pubblici, dopo essere stata ricoverata in una maternità rurale molto lontana di qui. Non riesce a camminare, perché ha un forte capogiro e una paralisi da travaglio prolungato .”
Ho tirato un lungo sospiro, mi sono completamente cambiato dalla testa ai piedi e mi sono diretto in sala parto con l’ecografo portatile. La maledizione del weekend continuava ad infierire: il feto era morto e ballonzolava tra le anse intestinali . “ Si rientra in sala appena l’hanno ripulita, speriamo di trovare del sangue compatibile da trasfondere, si tratta di una rottura dell’utero.
Speriamo che Dio ce la mandi buona anche questa volta !” ho detto a Daniela, mentre pensavo con un po’ di nostalgia al fine settimana di altri tempi , quando riuscivamo a staccare per riposarci qualche ora.
Anche Dio il settimo giorno della creazione si è riposato! Forse la settimana prossima, chissà, almeno la domenica pomeriggio.
Cerco di difenderla per poter poi iniziare con grinta nuova la settimana: purtroppo però non è raro che anche allora ci siano urgenze non dilazionabili.
Fare il medico in Africa, significa essere sempre disponibili, ma anche accettare con umiltà i propri limiti, sapendo che non possiamo sempre farcela dinanzi alla sterminata folla di persone che si rivolgono a noi, anche se siamo lì per loro, dal mattino alla sera. Mi consola quanto disse un giorno Madre Teresa di Calcutta a un giornalista che le chiedeva come si sentisse di fronte alla massa di poveri che non riusciva comunque a raggiungere sulle strade della città: “Dio non mi chiede di risolvere tutti i problemi, né di sradicare la povertà dalla faccia della terra. Lui mi chiede la fedeltà”.
A mia volta penso che Dio non mi chiede di guarire tutti gli ammalati.
A lui basta la nostra dedizione fedele a chi soffre.

Fr Beppe



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