martedì 16 novembre 2021

Morire di parto

Non ho mai saputo come si chiama. Ma gli ho dato un nome immaginario, “Giuseppe”. Da quando l’ho visto accanto al carro, trainato da una mucca e ho conosciuto la sua storia, chissà perché ho pensato al padre di Gesù. E a tanti altri padri che, non meno delle mamme, vivono nell’ombra, donandosi totalmente alle loro famiglie con tanti sacrifici.
Sono le 13,30 di una di quelle giornate torride nelle quali non c’è un filo di vento e non si sente volare una mosca. Appena uscito dal refettorio, mi avvio verso l’ospedale, per terminare di visitare tutti i pazienti prima dell’ora della preghiera. 
Attorno a me una strana atmosfera pomeridiana, un silenzio statico, neppure il consueto gracchiare dei corvi e degli ibis. 
Sono colto quasi impercettibilmente da una forte nostalgia delle estati della mia adolescenza, quando durante il mese d’agosto andavo in campagna e il pomeriggio ci si fermava sotto un albero per consumare “il pranzo al sacco”, prima di riprendere la raccolta delle pesche o delle patate.


Cammino lentamente, assorto nei miei pensieri con quella struggente sensazione di vivere in un altro luogo e in altri tempi che riempie il cuore di tenerezza. Ma appena giunto vicino all’ospedale i ricordi si dissolvono, ripiombo nella normalità quotidiana. Una donna psichiatrica mi saluta da lontano, pensa che sia suo marito; un gruppo di parenti mi sta aspettando per avere informazioni sui propri ammalati; altri aspettano con evidenti segni d’impazienza che io
scriva la lettera di dimissioni.
Il sogno è durato poco. Bambini che piangono, mentre si cerca di trovare loro una vena, donne che si contorcono nei dolori del travaglio del parto, uomini paralizzati che aspettano il fisioterapista, pazienti esterni che si lamentano per la vescica troppo piena e per il mio ritardo nel fare loro l’ecografia. Appena arrivo nella “doctor’s room” la mia attenzione viene richiamata dal muggito persistente di una mucca che proviene dalla sala di attesa. Mi affaccio alla finestra e vedo un gruppo di persone, vestite poveramente, che si affannano attorno ad un carretto trainato da un bovino.
Il nostro guardiano corre con la barella, deve trattarsi di una partoriente, perché attorno a lei ci sono quasi tutte donne, ad eccezione di un uomo emaciato e dall’aspetto molto provato che cerca di tenere calmo l’animale e rimane lontano dall’ammalato. Esco per vedere di che cosa si tratta , quando la barella mi passa accanto è ricoperta di sangue. Mi rendo conto che siamo dinanzi ad un’emergenza, chiamo il laboratorio per una trasfusione urgente.
Faccio mettere la partoriente nella sala travaglio, perché lì abbiamo una buona barella e una luce discreta.
Soltanto in quel momento mi accorgo che tra le braccia di una donna c’è una neonata in ottima salute. Mi spiegano che la mamma il giorno prima aveva deciso di partorire a casa, come altre tre volte, ma da quando la bambina è nata, non aveva mai cessato di perdere sangue.
L’uomo che sta aspettando fuori, accanto alla mucca, è il marito. E’ esausto perché il viaggio è durato nove ore. La madre è in pessime condizioni a causa di una placenta ritenuta ed ha bisogno urgente di sangue. Abbiamo poco tempo per cercare di salvarla. Mentre inizia la trasfusione, tentiamo la rimozione manuale della placenta “con un briciolo appena” di anestesia, in quanto la donna è quasi incosciente.
Purtroppo è troppo tardi. Dopo poco più di un’ora, la donna spira.
Soltanto a questo punto, su consiglio di una donna che si presenta come la madre della partoriente, chiamo il marito che è rimasto fuori pieno di speranza. E’ sconvolto dalla morte della moglie, continua a ripetermi che ha fatto tutto ciò che poteva e adesso non sa che cosa
fare perché a casa lo aspettano altri bambini. Lo guardo con una grande pena , in silenzio, non so come confortarlo, provo una dolorosa sensazione di impotenza, le parole si seccano in gola.
Mentre guardo il marito affranto, penso al dramma del dolore umano, al continuo intersecarsi di vita e di morte , al mistero dei bambini che non conosceranno mai la loro mamma e a quello delle giovani donne che piangono la scomparsa di una figlio adolescente, magari ucciso da un’overdose.
Morire durante il parto sembra un controsenso, una condizione così innaturale! Una donna coltiva per nove mesi una vita nel suo grembo e poi quando questa sboccia è come se le succhiasse l’anima a tale punto che lei se ne deve andare. Che mistero e che dolore grande ! Forse è meglio non porsi troppe domande e continuare a dedicarsi agli altri pazienti che hanno bisogno di noi.

Fr Beppe



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