martedì 3 novembre 2020

I miracoli della chirurgia tropicale

Ann ha 32 anni e si presenta in ospedale con una grossa tumefazione della loggia renale sinistra. E’ in preda ad una terribile sofferenza.
Sembra un dolore della fossa iliaca sinistra più che della massa che le sporge dalla schiena: infatti cammina piegata a novanta gradi perchè la posizione eretta per lei è troppo dolorosa.
E’ così sofferente che le scappano parole forti, come per esempio: “sto morendo! Questa volta proprio non ce la faccio!”
Se il male non fosse dal lato sinistro, con irradiazione alla gamba sinistra, direi che la sintomatologia potrebbe farmi pensare ad un ascesso peri-appendicolare.
Faccio l’ecografia sulla massa del fianco e mi rendo conto che è liquida, seppur contenente un materiale denso che potrebbe essere sangue o pus.
Penso immediatamente ad un ascesso dello psoas, che da noi non è così raro.
La posizione antalgica con cui la paziente cammina è possibilmente dovuta all’irritazione dei muscoli della parete addominale.


Con una siringa faccio un prelievo diagnostico che conferma la natura liquida della massa.
Quello che aspiro lo mando immediatamente in laboratorio, al fine di ottenere un’accurata diagnosi differenziale con la tubercolosi della colonna con ascesso ossifluente, che è anch’essa frequente nella nostra casistica. Il pus che ho ottenuto sembra comunque quello classico che i vecchi libri di patologia generale chiamavano “bonum et laudabile”...onestamente non credo che sia TBC.
Procediamo quindi alla terapia chirurgica.
Con paziente messa sul fianco ed anestetizzata con ketamina, incidiamo orizzontalmente la massa in una piega della cute e ne otteniamo una quantità industriale di pus, che raccogliamo in varie arcelle.
Con un dito eliminiamo tutte le sedimentazioni interne e ci rendiamo conto che la raccolta, assolutamente extraperitoneale, cola comunque fino alla fossa iliaca sinistra, in un tragitto formatosi davanti all’ala iliaca.
Disinfettiamo l’interno della cavità sia con acqua ossigenata che con betadine, e poi zaffiamo abbondantemente con garze, evitando la sutura.
La cosa migliore per queste patologia infettive tropicali è infatti una guarigione per seconda intenzione e collabimento della cavità interna. Suturare la cute creerebbe un vuoto all’interno, e questo predisporrebbe ad una nuova ricrescita di germi, anche anaerobi, con possibile recidiva.
Due giorni dopo la procedura chirurgica, la medicazione non dà più molto pus, e soprattutto la paziente appare vispa ed arzilla. Non dice più che si sente morire, ma ripetutamente chiede di essere dimessa e di essere medicata in un dispensario vicino a casa.
Naturalmente è coperta da una robusta terapia antibiotica che sta contribuendo alla sua guarigione.
Sono davvero i miracoli della chirurgia tropicale; sono quei momenti in cui ti senti di aver fatto qualcosa di importante per una persona: era arrivata pensandosi vicina alla morte, ed ora è felice e chiede di tornare a casa per prendersi cura dei propri bambini.

Fr Beppe Gaido



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