lunedì 11 maggio 2020

Quadretto africano

Sono le 21 e piove a dirotto.
In ospedale ricevo una coppia con un bambino grave.
L’età apparente è di circa 5 anni, ed è praticamente in coma.
Dopo una breve visita e gli esami del caso, pongo diagnosi di malaria cerebrale e prescrivo il ricovero.
Decidiamo che è la mamma a stare con il bambino in ospedale e la mandiamo (come di routine) a farsi una doccia e ad indossare la divisa dell’ospedale.
Il papà rimane seduto in corridoio con il bambino in braccio, aspettando che la moglie esca dal bagno.
Procediamo alla parte burocratica per l’apertura della cartella e per il ricovero.
Josphine chiede al papà la domanda più ovvia:
“Come si chiama il bambino?”
Nessuno si aspettava l’espressione smarrita di quell’uomo e la sua risposta:
“Questo qua? Onestamente non ne sono sicuro...aspettata che la mamma esca dai servizi, e chiedilo a lei!”
Josphine lo guarda con espressione indignata e l’uomo si difende:
“Ho tanti figli! Come faccio a ricordarmi il nome di tutti?”


Quando la consorte riappare ancora gocciolante dopo la doccia, lei e Josphine si scambiano in kimeru alcune battute piene di ilarità.
La donna mi guarda e mi dice: “il bambino si chiama Mwenda...mio marito è così...non farci caso”.
L’episodio mi ha fatto dapprima sorridere, ma poi mi ha caricato di una grande tristezza.

Fr Beppe


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