Sei stata dimessa ieri mattina! C’è di nuovo qualcosa che non va?”
Nei suoi occhioni bellissimi spuntano due lacrimoni (lo so che Makena è molto fragile e che la malattia di suo figlio la sta distruggendo).
“Siamo arrivati stamattina alle undici, ma tu eri sempre in sala. Ora il bimbo non c’è più...”
A questo punto Makena scoppia a piangere ed io mi ritrovo paralizzato e senza parole.
Avevo ricoverato suo figlio di nove mesi in condizioni disperate.
Aveva un pancione enorme a causa dell’ascite e gli occhi giallissimi a motivo dell’ittero.
Avevamo disperatamente cercato la causa di questa situazione, ma ci eravamo arenati a causa della scarsità dei nostri mezzi diagnostici.
In qualche modo eravamo riusciti ad escludere una patologia tumorale, perchè il citologico sull’ascite era negativo. Troppo pericoloso sarebbe stato fare una biospia epatica: avremmo potuto uccidere il bambino con una emorragia interna.
Gli esami clinici eseguiti ci avevano gradualmente portati ad una diagnosi di cirrosi epatica di eziologia non infettiva: probabilmente una cirrosi biliare primitiva o qualche altra forma congenita.
Con qualche paracentesi, con i diuretici e con le altre poche terapie a nostra disposizione, eravamo riusciti, se non altro, a ridurre l’irritabilità del piccolo e ad incrementare un po’ l’appetito.
Makena aveva ripreso un po’ di coraggio, anche se io non avevo certo alimentato false speranze quando le parlavo del futuro del bambino; aveva chiesto di andare a casa e di tornare ai controlli periodici come paziente ambulatoriale.
Eravamo riusciti a dimetterla ieri. Andando a casa Makena si era potuta permettere un timido sorriso, che forse era più un grazie che non un’espressione di gioia od ottimismo.
Oggi però me la sono trovata qui, con il suo fardello di dolore e senza il suo figlio primogenito.
Non sono neanche riuscito ad essere presente quando il piccolo le spirava tra le braccia perchè ero in sala ad operare un paziente polifratturato.
“Ho il seno pieno di latte; mi fa tanto male!”
Questa è stata l’unica frase che Makena è riuscita a dirmi, ed io, con la lingua più paralizzata della sua, non sono riuscito a risponderle niente: ho prescritto una terapia per il suo problema; le ho stretto il braccio per qualche secondo e poi l’ho lasciata andare, perchè
erano passate le 18.30 e per lei il cammino verso casa sarebbe stato lungo.
Fr Beppe
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